Amazzonia: Non lasciamola sola

Le coltivazioni di soia fioriscono con Bolsonaro e aumenta la richiesta cinese del legume: i prezzi mantenuti bassi permettono di aggirare i dazi imposti da Trump.

Gli indigeni: «Resisteremo, aiutateci»

Appena fuori dal villaggio indigeno di Jabutí, ci si imbatte in un manto spugnoso di spighe dorate. Steli giallo-tenue circondati da fili d’erba pallida. La distesa prosegue monotona per chilometri e chilometri. Interrotta solo dalla «via dell’agrobusiness»: l’autostrada che collega Boa Vista, capitale dello Stato brasiliano del Roraima, con Bonfim, il municipio più vicino alla terra indigena, nonché nuova, dirompente frontiera della soia.

L’anno prossimo, il Brasile potrebbe superare gli Stati Uniti e diventarne il primo produttore, con 123 milioni di tonnellate. “Colpa” dell’insaziabile fame cinese e della guerra commerciale tra gli Usa di Donald Trump e Pechino. L’imposizione di dazi reciproci del 25 per cento alle rispettive importazioni ha spinto il Dragone a preferire il legume brasiliano a quello made in Usa. Per soddisfare la richiesta, il Gigante del Sud dovrebbe produrne quasi 40 milioni di tonnellate in più. Ciò, secondo la rivista “Nature”, significherebbe un aumento delle piantagioni del 39 per cento, circa 13 milioni di ettari. Ricavati – dato che è l’unica parte ancora intatta – dal disboscamento dell’Amazzonia.

A caccia di spazi, lo sguardo avido dell’agrobusiness si è rivolto al Roraima. Una meta allettante dato il clima favorevole e il basso prezzo delle proprietà fondiarie: un ventesimo, rispetto al resto della nazione. Negli ultimi sei anni, le coltivazioni sono cresciute di oltre il 136 per cento.
Certo, i loro 50mila ettari sono ancora poca cosa rispetto ai 34 milioni di ettari totali sparsi per il Brasile. Il ritmo di espansione, però, è incalzante. E va a discapito del lavrado. Non esiste un corrispettivo in italiano: si tratta di un ecosistema unico al mondo, un peculiare tipo di savana che si estende, però, a ridosso dell’Amazzonia, diventandone quasi parte integrante. Intorno a Jabutí, il lavrado cresceva rigoglioso. Ora il villaggio è circondato dai campi di soia. E i ruralistas, come vengono chiamati i latifondisti, vogliono sfondare. Cioè insinuarsi all’interno della terra legalmente restituita dallo Stato ai popoli Wapichana e Macuxi.

In teoria non potrebbero: in base alla Costituzione, i 500 indios sono i soli legittimi usufruttuari dei 14mila ettari di Jabutí. Ma i fazendeiros (latifondisti) cercano di aggirare gli ostacoli. «Sono determinati ad affittare la nostra terra. L’ultima volta, ci hanno offerto in cambio un’auto e una moto. Non li avevo mai visti prima, spesso i grandi proprietari utilizzano dei prestanome per non esporsi. Come al solito abbiamo detto no, ma sta diventando sempre più difficile. I più giovani si fanno allettare dalle promesse. All’ultima riunione ci hanno accusati di essere “contro il progresso”. Stanno riuscendo a spaccare la comunità», racconta Adison, uno degli anziani della comunità.

L’affitto dei singoli appezzamenti o di una loro parte è proibito. Il divieto, però, non impedisce ai latifondisti di cercare un accordo “informale”: noleggio a tempo indeterminato dei campi in cambio di qualche oggetto vistoso o un po’ di denaro. Poca roba per chi offre. Tanto per chi deve i conti ogni giorno la penuria cronica di beni e servizi. «Capisco che molti ragazzi vogliano cedere. Qualche soldo in più farebbe comodo a tutti. Ma se perdiamo la nostra terra smettiamo di esistere. Moriremo come comunità e come popolo. Per questo dobbiamo continuare a dire no».
La lotta perché agli indigeni fosse riconosciuto il diritto alla terra è stata feroce. Migliaia di nativi sono stati ammazzati. Alla fine, però, sostenuti dalla Chiesa, questi l’hanno spuntata. Gli indios hanno ottenuto il 46 per cento della superficie del Roraima, divisa in 32 maxi-appezzamenti. Un totale di dieci milioni di ettari riservato a un mosaico di undici popoli – di cui uno in isolamento volontario –, che, però, non supera il 18 per cento della popolazione. «Troppa terra per pochi uomini», ha già detto più di una volta il presidente Jair Bolsonaro.

«Non direi. Si dimentica spesso che gli indigeni non amministrano le terre a loro esclusivo vantaggio. Grazie a noi e alla nostra gestione sostenibile, c’è ancora il lavrado. Siamo i custodi e gli argini di un modello di sviluppo predatorio. Distruggere noi e il nostro modo di vivere, vuol dire distruggere l’Amazzonia e il mondo», sottolinea Edinho Batista, del popolo Macuxi e presidente del Consiglio indigeno del Roraima (Cir). «La battaglia, poi – prosegue – è ancora a metà. Rivendichiamo altri quattro territori e 22 già assegnati sarebbero da ampliare. Con la nuova Amministrazione, nazionale e regionale, però, non abbiamo molta speranza di essere ascoltati. Anzi, ormai dobbiamo giocare sulla difensiva per non perdere ciò che abbiamo già conquistato».

La pressione cresce. «È un fenomeno in atto da tre, quattro anni, quando si è paralizzato il processo di restituzione delle terre ai nativi – analizza Luis Ventura, coordinatore regionale del Consiglio indigenista missionario (Cimi), organismo della Conferenza episcopale brasiliana –. Al contempo, si è intensificata la pressione della bancada ruralista (parlamentari legati ai grandi latifondisti) per ridurre le tutele e aprire agli investimenti le aree protette. In tale ambito rientra la questione dell’affitto dei territori indigeni comunitari, di chiaro contenuto anticostituzionale».

L’elezione di Bolsonaro ha rappresentato un salto di qualità: gli ultimi dati dell’Istituto nazionale di ricerca spaziale (Inpe) hann rilevato un aumento dell’88 per cento nella deforestazione a giugno all’anno precedente. In Roraima la situazione è ancora più complicato. Le stesse elezioni vinte da Bolsonaro hanno assegnato l’incarico di governatore ad Antonio Denarium, noto produttore di soia, nonché rappresentante della cooperativa degli allevatori di carne dello Stato.
Del medesimo partito del presidente, Denarium non ha, però, escluso la possibilità di «rivedere alcune situazioni» per espandere la frontiera agricola e aumentare la produzione regionale. Del resto, il suo programma sottolinea la necessità di incentivare l’agrobusiness, anche attraendo investitori da altri Stati.


«Che cosa abbiamo intenzione di fare? Continuare a resistere – conclude con orgoglio Edinho –. Per noi, ma anche per voi. Non lasciateci soli».

da avvenire.it

By |2019-07-11T14:53:48+00:00luglio 11th, 2019|Network, News|0 Comments